’intervista della portavoce di ApI al “Corriere del Mezzogiorno”: «La trasparenza si ha soltanto con una gara»
È stata la prima a portare in Borsa una società idrica, l’Acea di
Roma, come assessore all’Economia del Comune della Capitale nella giunta
Rutelli. E ha provato, da ministra del governo Prodi — con il disegno
di legge sui servizi pubblici locali che portava il suo nome — a far
capire che laddove sono necessari ingenti investimenti, come appunto
nelle reti idriche, il pubblico deve far spazio anche ai privati. Per
questo Linda Lanzillotta, deputato di Alleanza per l’Italia, non
condivide la scelta di «pubblicizzazione» dell’acqua che dopo la Puglia di Nichi Vendola tocca anche la Napoli di Luigi De Magistris.
Onorevole, il Comune di Napoli con la trasformazione dell’Arin in
Abc, società di diritto pubblico vuole portare trasparenza nella
gestione del servizio idrico. Lei con il suo ddl che apriva ai privati,
voleva porre fine alla gestione occulta degli enti locali. Come si
spiega l’antitesi?«Si spiega con la diversa visione di
efficienza e di reperimento di risorse. La situazione è semplice: se si
vuole una rete idrica efficiente, occorrono investimenti di decine di
miliardi di euro. Che il pubblico non può fare. Se anche si volesse
limitare all’ordinario, dovrebbe aumentare le tariffe. Ma, invece,
proprio al Sud, nei territori più disastrati per reti idriche e finanza
pubblica, la Regione Puglia
e il Comune di Napoli promettono società pubbliche, tariffe basse e
utili da reinvestire nelle infrastrutture. I conti non tornano».
L’amministrazione de Magistris sottolinea che si tratta di un atto che va incontro all’esito del referendum.«Il
referendum ha detto che il futuro delle società idriche deve essere
deciso dai Comuni e non più dal decreto Ronchi. La scelta di De
Magistris corrisponde al modello in house secondo le norme comunitarie.
Ma il referendum lascia ai Comuni un’altra scelta, cioè l’opzione
alternativa dell’Unione Europea:quella di ricorrere a una gara per
affidare la gestione a chi si dimostri più efficiente, pubblico, privato
o misto che sia».
Insomma, non c’è alcun obbligo di stop ai privati.«No. E
la gara rappresenta la gestione competitiva: chi mi garantisce maggiori
investimenti con tariffe più basse è più efficiente. Ed è quello che
chiede la Comunità
europea. L’affidamento diretto a una società pubblica, invece, è
tutt’altro che trasparente, ci riporterà ai vecchi carrozzoni».
Anche se si promette acqua meno cara per tutti?«Ma questa è
demagogia, si cerca a tutti i costi di giustificare quelle che in
realtà sono motivazioni ideologiche. Lo sa come vanno a finire queste
cose?».
Me lo spieghi.«Che tariffe basse, utili e investimenti non
si conciliano. E allora il Comune dovrà tagliare altri servizi
importanti per la comunità, per esempio gli asili nido, oppure dovrà
aumentare le tasse. Non c’è nulla di più iniquo, perché alla fine si
finanzieranno le piscine di chi le tasse le evade con i risparmi dei
meno abbienti che invece le pagano. Altro che acqua gratis per tutti. E
poi c’è un altro aspetto da non dimenticare».
Quale?«I finanziamenti erogati a una società pubblica
vengono contabilizzati da Eurostat nel debito pubblico. Se invece vanno a
una società mista come Acea gli investimenti no rientrano nel Patto di
stabilità e quindi non rischiano di essere bloccati».
A proposito di Acea, a più di dieci anni dalla quotazione in
Borsa, rifarebbe tutto? La società, nel settore, non è poi cresciuta
tanto come ci si aspettava.«Questa forse è l’unica remora. Ma
per il resto, quando cominciai ad occuparmene mezza commissione
amministratrice dell’Acea era in carcere per tangenti; la quotazione in
Borsa l’ha resa una vera azienda».
Con l’Acea ci è riuscita, ma il tentativo del ddl sui servizi
pubblici locali è andato a vuoto. Soltanto colpa di Rifondazione
comunista?«Guardi, fu un no trasversale. Quando si toccano
interessi forti, non ci sono appartenenze politiche che tengano. E come
ho detto, nelle reti idriche gli investimenti sono di miliardi di euro.
Formalmente l’ostacolo del ddl furono i veti incrociati in parlamento,
per motivazioni ideologiche. Che, poi, però, alla resa dei conti vengono
accantonate, come è successo anche nell’ultimo referendum».
A cosa si riferisce?«Non mi sembra che in Puglia Vendola abbia tagliato le tariffe del 7% così come previsto da uno dei due quesiti».
Si è giustificato dicendo che in Puglia la remunerazione del 7%
del capitale investito è un costo, rappresenta la copertura di un
debito.«Appunto, è una giustificazione. In realtà non si è dato
seguito al quesito referendario. E poi sull’Acquedotto Pugliese la
situazione è ancora più intricata che a Napoli».
E infatti la legge regionale di ripubblicizzazione dell’Aqp è stata impugnata dal governo e dovrà decidere la Corte costituzionale.«Perché occorre dar conto anche a leggi nazionali che riguardano l’Acquedotto Pugliese».
Si riferisce alla concessione alla gestione del servizio idrico che fu attribuita fino al 2018 in
forza della legge del ’99 che trasformò l’allora Ente autonomo nella
spa (che ora si vuole cancellare) o alla legge di privatizzazione del
2001 voluta da Tremonti?«A entrambe. Ma in particolare a
quest’ultima che prevedeva la vendita entro sei mesi in cambio del
passaggio dell’Aqp dal Tesoro alla Puglia. Con i tempi che corrono,
Tremonti potrebbe anche porre la questione e riprendersi l’Acquedotto
Pugliese visto che quella legge non è stata ottemperata».
Intervista di Michelangelo Borrillo
mercoledì 28 settembre 2011
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