mercoledì 3 agosto 2011

intervento di pino pisicchio

Onorevoli Colleghi, la circostanza del dibattito sul bilancio della Camera, l’ultimo atto di questa travagliata stagione politica prima della pausa estiva, rappresenta un’occasione particolarmente propizia per discutere dei costi della politica e delle istituzioni, ma anche di ruolo del Parlamento e di rapporto con il corpo elettorale ed il sistema mediatico. Il paradosso di questa stagione politica, che pure sembra aver fondato le sue ragioni sull’effimera risorsa della comunicazione piuttosto che sulla concreta fattualità dell’azione, è che i suoi protagonisti, il ceto parlamentare o se si vuole, richiamando l’evocazione più ricorrente in certa pubblicistica, la “casta” non sa comunicare. Perché basta scorrere le cronache, politiche e non, di queste settimane per imbattersi in un inquietante florilegio di invettive, di contabilità fantasiose, di pregiudizi venati di qualunquismo, sui costi della politica. Un gruppo di ricerca al Senato ha selezionato più di 1500 articoli pubblicati sulla stampa nazionale negli ultimi sei mesi per illustrare gli odiosi privilegi-ovviamente non sempre fondati, ma questo non cambia-della casta. Un’onda di indignazione,dunque, si abbatte sulla politica e suoi attori interpretando e in parte anche sollecitando un sentimento di antipolitica che attraversa ciclicamente la pubblica opinione come un fiume carsico, e che straripa nei momenti difficili per le famiglie italiane. In questo atteggiamento, in questa furia iconoclasta, che riecheggia situazioni già vissute agli inizi degli anni ’90, quando si chiudeva il ciclo storico dei grandi partiti del novecento, c’è un grande pericolo:quello dell’indistinzione, della mancata indicazione delle responsabilità personali, dello straripamento del giudizio dai singoli alle Istituzioni. Del resto l’approccio stesso che viene medializzato, investendo responsabilità “castali”, dunque “uti collettivi”, legittima in qualche modo la fuga delle responsabilità “uti singuli”, col paradosso della condanna senza appello delle assemblee elettive. In particolare il Parlamento, da sempre nell’immaginario sociale il “luogo” della politica per eccellenza, soffre questa condizione malata che rischia di generare effetti devastanti nell’equilibrio democratico del Paese. Peraltro la frattura prodotta dalle leggi elettorali tra eletti ed elettori, ha concorso ancor più a deteriorare il rapporto tra parlamentari e popolo, mettendo in crisi il significato stesso della rappresentanza democratica. E’ difficile difendere la dignità del Parlamento e la dignità personale dei tanti parlamentari che onestamente esercitano il loro mandato, quando la selezione della rappresentanza viene sottratta alla sanzione dell’unico legittimo titolare della sovranità, il cittadino elettore. E dunque la prima risposta che la politica deve dare con urgenza al Paese è quella di una riforma elettorale che sia capace di riconiugare la rappresentanza al consenso, chiudendo con la troppo lunga stagione della cooptazione.Perché il Parlamento ha il dovere di onorare il suo ruolo, centrale nell’ordinamento democratico dello Stato , senza cedere alla furia iconoclasta oggi di moda un solo centimetro della sua dignità. Vedete, colleghi, io ritengo che sia profondamente sbagliato pensare di arginare quel vento che convenzionalmente abbiamo imparato a chiamare “antipolitica”, assecondando con qualche gesto condiscendente le obiezioni radicali che vengono portate alla politica: perché questo vorrebbe dire che riconosciamo la giustezza di quelle critiche e la nostra inadeguatezza rispetto al compito che la Costituzione ci assegna e che speriamo con qualche piccolo accorgimento contabile o con proclamazioni di pubbliche virtù, di farla franca solo perché accarezziamo il ventre molle della pubblica opinione. L’onorabilità delle Istituzioni, la dignità del Parlamento, non è un esercizio di marketing: domando a me stesso se la generazione di Aldo Moro, di Enrico Berlinguer, di Ugo La Malfa, di Malagodi, di Nenni, insomma la generazione di politici a tutto tondo, non quelli prestati da qualche altro mestiere, abbia mai avuto a subire un’onda popolare di ostilità così dura e compatta, che accomuna tutti i media. Io ritengo proprio di no. Ma perché? Perché quei politici, quei parlamentari erano autorevoli, non solo per la sobrietà dei comportamenti personali, ma anche per la qualità del prodotto politico che da essi promanava e per il rapporto diretto e forte con il corpo elettorale che li eleggeva scegliendoli uno per uno. Ecco allora che, al di là delle valutazioni contabili, al di là delle necessarie economie e dei giusti sacrifici che anche il ceto parlamentare deve compiere e che il collegio dei questori mi pare abbia compiuto, senza scivolare in improvvidi demagogismi che hanno portato qualche voce alla ricerca del quarto d’ora di celebrità caro alla cultura pop a dire cose improbabili e incostituzionali sui trattamenti economici e sui vitalizi, io credo che quest’Aula debba dire a chiare lettere in questa solenne occasione come intende riprendersi il suo ruolo costituzionale e come intenda tutelare la sua onorabilità. Di istituzione democratica, non di casta. Perché io credo che se il corpo elettorale potesse scegliere e revocare i propri rappresentanti, se il lavoro parlamentare producesse effettivamente risultati per il bene comune, se la politica e l’etica si lasciassero coniugare come è necessario, io credo che la politica potrebbe ritrovare quella necessaria autorevolezza e quel ruolo di pedagogia democratica-be diverso dal marketing elettorale che usa oggi- che costruisce la credibilità delle istituzioni. Qualche gesto lo possiamo compiere da subito: perché non istituire una commissione d’inchiesta sulla giungla retributiva, per indagare sulle retribuzioni, indennità e remunerazioni a qualsiasi titolo di tutti i ruoli e le funzioni collegate al meccanismo elettivo o di nomina pubblica, dalle autorità alla quantità di enti che gravitano nella costellazione politica? Sarebbe una onesta operazione di trasparenza che potrebbe generare solo effetti positivi in una stagione in cui troppe zone d’ombra e troppe bugie ad uso mediatico circolano per il paese.

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